Intanto facciamo una prima considerazione: la fine di Gesù non è stata descritta dagli evangelisti con i verbi che indicano il morire (gr. apothaneskô, teleutaô), ma tutti scrivono che Gesù “lasciò/donò lo Spirito” (paredôken to pneuma, Gv 19,30), o “spirò” (exepneusen, Mc 15,37; Lc 23,45). Quindi, quella descritta dagli evangelisti non è una scena di morte ma di vita, e il gesto di Gesù è compiuto con piena consapevolezza.
Attraverso l’impiego del verbo spirare, mai adoperato prima dei vangeli per descrivere la morte di un individuo, gli evangelisti intendono indicare che la vita non è tolta a Gesù, ma è lui che la dona, comunicando lo Spirito che aveva ricevuto dal Padre al momento del battesimo (Mt 3,16).
Ricordiamo inoltre che la sepoltura di Gesù descritta da Giovanni è una scena di vita, non di morte, perché parla di un giardino e l’aloe e la mirra portati da Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo in grande quantità (100 libre!) sono i profumi che si usavano nelle nozze, non nella sepoltura dei morti.
Secondo Paolo, “se Cristo non è resuscitato (…) è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14): quindi è importante credere che Gesù sia resuscitato, ma cosa significa che Gesù è resuscitato? Anche qui purtroppo abbiamo le idee un po’ confuse o addirittura deviate. Il fatto della resurrezione non è descritto in nessun Vangelo.
L’unica descrizione della resurrezione di Gesù la Chiesa non l’ha considerata autentica, ed è purtroppo invece quella che ha eccitato la fantasia degli scrittori e degli artisti. La conosciamo tutti l’immagine del Gesù trionfante che esce dalla tomba con il vessillo della vittoria: non appartiene ai Vangeli, ma è in un testo apocrifo del 150 chiamato il Vangelo di Pietro.
Quindi nessun Vangelo ci descrive la resurrezione di Gesù. Tutti la descrivono in forme diverse, ma il significato che intendono proporre è identico: ci offrono la possibilità di sperimentarlo resuscitato. Non è possibile credere che Gesù è resuscitato perché ci viene insegnato dalla Chiesa, e neanche perché è scritto nei Vangeli: fintanto che non si sperimenta nella propria esistenza la realtà di Gesù vivo e vivificante, non è possibile credere a Gesù resuscitato.
Ecco perché, mentre nessuno dei Vangeli ci dice come Gesù è resuscitato, tutti, in maniera differente l’uno dall’altro, danno l’indicazione di come sperimentarlo resuscitato. La resurrezione di Gesù non appartiene alla storia ma alla fede, non è un episodio della cronaca, ma è un episodio che si chiama teologico.
Cosa significa? Se al momento della resurrezione di Gesù fosse stata presente, oggi, la televisione con fotografi, non avrebbero fotografato e ripreso assolutamente niente, perché la resurrezione di Gesù non è un episodio storico, ma un episodio che riguarda la fede: non è possibile vedere con gli occhi, con la vista fisica Gesù resuscitato, bisogna vederlo con la vista interiore.
Questo può sconcertare, ma è quello che ci presentano gli evangelisti. Se avete dimestichezza con i Vangeli, provate ad andare a leggere i racconti della resurrezione: ogni evangelista ce la presenta in maniera differente e non è possibile conciliare un Vangelo con l’altro.
Quello che ci sembra il più normale come relazione è il Vangelo di Giovanni. Nel Vangelo di Giovanni Gesù è stato assassinato a Gerusalemme, quindi è morto a Gerusalemme, è resuscitato a Gerusalemme; i discepoli sono racchiusi nel cenacolo per paura di fare la stessa fine di Gesù a Gerusalemme, Gesù appena resuscitato appare ai suoi discepoli.
Questa è la relazione che ci sembra, anche storicamente, la più plausibile; quindi Gesù resuscitato, la prima cosa che fa, si fa presente ai suoi discepoli, viene sperimentato vivo dai discepoli. Questo nel Vangelo di Giovanni: ma nel Vangelo di Matteo, quello che adesso noi tratteremo, l’episodio è completamente diverso. Gesù, morto a Gerusalemme, resuscitato a Gerusalemme, non compare ai discepoli; manda a dire: “mi volete vedere? Andate in Galilea!” (cfr. Mt 28,10). Cioè fate i quattro giorni di cammino per coprire i 125 Km. che separano Gerusalemme dalla Galilea. Allora vedete che tra i due episodi non è possibile alcuna conciliazione.
O Gesù è apparso il giorno della sua resurrezione ai suoi discepoli a Gerusalemme o, come dice Matteo, li ha costretti ad andare in Galilea. Da Gerusalemme in Galilea ci sono normalmente 4 giorni di cammino, perché questa bizzarria? Ma non è più normale quello che ha scritto Giovanni, che Gesù resuscitato appare subito ai suoi discepoli? Perché li manda in Galilea e ritarda l’esperienza importantissima della resurrezione?
Ebbene, tutti gli evangelisti indicano la stessa cosa: il significato è lo stesso, le forme per presentarlo sono differenti. Tutti gli evangelisti ci vogliono dire questa profonda verità: l’esperienza di Gesù vivo può esere fatta in luoghi e circostanze diverse da ogni persona o gruppo; l’importante è mettere in pratica il suo messaggio, vivendo come lui è vissuto.
Ecco allora in un altro Vangelo, per esempio nel Vangelo di Luca, conosciamo tutti l’episodio dei discepoli di Emmaus: anche lì non è possibile conciliarlo né con Giovanni né tanto meno con Matteo. Tutti gli evangelisti indicano la stessa cosa: nessuno ci dice come è risorto Gesù ma tutti ci dicono che è possibile sperimentarlo resuscitato, vivendo come lui è vissuto.
Nel Vangelo di Luca, quand’è che i discepoli si rendono conto che quel compagno di viaggio è Gesù? Quando spezzano il pane con lui; cioè “siamo disposti a divenire pane spezzato, come hai fatto tu. In quel momento sperimentano nella propria esistenza la presenza di Gesù vivo e vivificante. Nel Vangelo di Giovanni Gesù dice: “Come il padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,21), cioè: “Come io ho compiuto la missione che il Padre e mi ha affidato e mi sono speso a servizio degli altri, fino a donare la mia vita, e il Padre mi ha risuscitato; fate anche voi lo stesso e avrete in voi una qualità di vita talmente forte da essere indistruttibile, – cioè una vita divina -, e quindi sperimenterete che io sono vivo.
Purtroppo nell’insegnamento cristiano si sono infilate delle idee che nulla hanno a vedere con il messaggio di Gesù. Una di queste idee è stata presa in prestito dalla filosofia greca ed è la teoria dell’immortalità dell’anima. La conoscete, c’è un’anima che sta nei cieli, scende sulla terra, entra in un corpo, ma vede il corpo come una specie di prigione e non vede l’ora di ritornare a Dio. Quindi anche noi si diceva: “Il corpo si corrompe, ma l’anima va in paradiso; si parlava delle “anime del purgatori”! Ma non è questo la resurrezione; non è questo il nostro destino.
La risurrezione della persona tutta intera, anima e corpo, è una idea esclusiva del N.T. e del primitivo cristianesimo. C’è uno dei Padri della Chiesa, S. Giustino, che dice: «quando incontri uno che si dice cristiano, tu chiedigli: “Tu credi alla risurrezione dei morti o alla immortalità dell’anima? Se ti risponde l’immortalità dell’anima non è cristiano». I cristiani non credono all’immortalità dell’anima, ma alla risurrezione; sono due concetti completamente differenti.
I cristiani non credono all’immortalità dell’anima perché quello di anima è un concetto completamente sconosciuto nella cultura ebraica.
Nella cultura ebraica c’è la persona, che è composta naturalmente di corpo e spirito, quindi l’idea di un’anima immortale, nel mondo ebraico era completamente sconosciuta e quindi anche nell’insegnamento di Gesù. Quando si muore non c’è un’anima che sopravvive, ma c’è la persona stessa che può continuare la sua esistenza.
Prima di passare ad analizzare il capitolo 28° di Matteo, vorrei dirvi una parola su di una pagina del 4° vangelo che viene proclamata nel periodo pasquale. Mi riferisco all’inizio del capitolo 20. All’annunzio della Maddalena della tomba trovata vuota, Pietro e e il discepolo che Gesù amava corrono a constatare il fatto. Pietro si china a vedere, ma non capisce l’evento; il discepolo “che era arrivato primo al seplocro, entrò, vide e cretette (èiden kai episteusen).” Ora i greci hanno due verbi per indicare “vedere”: blepo e orào. Il primo indica l’esercizio dell’occhio; il secondo significa intuire, conoscere in profondità. Ebbene l’evangelista usa il verbo orào (irregolare con tre radici or, id, op). Lo stesso verbo l’evangelista lo usa nel primo capitolo, quando parla del primo incontro con Gesù dei due discepoli di Giovanni. All’invito di Gesù “Venite e vedete”, essi “andarono e videro (èlthon kai èiden.)